In-attesa

di Chiara Serri

Le opere di Myriam Cappelletti sono parte di un unico racconto in cui lo spazio e il tempo si fanno indefiniti, mentre i frammenti del quotidiano vanno ad intrecciarsi alle forme archetipe di una memoria collettiva, che affonda le proprie radici nella storia, nel mito e nel sogno.

Un universo pittorico nel quale si rincorrono elementi simbolici, peraltro non nuovi all’iconografia cristiana, come il pesce, il cipresso e la torre, ma anche forme elementari, quali la casa e il cuore, che dando vita ad uno spazio familiare e rassicurante, permettono all’artista di entrare immediatamente in sintonia con lo spettatore.

Le frecce, gli alberi, i pesci, spesso ripetuti come “lettere” di una scrittura ancestrale, diventano infatti i segni di un linguaggio sintetico che, in una sola parola, racchiude un intero mondo, secondo una genealogia illustre che va da Cy Twombly a Gastone Novelli.

Un linguaggio che, come dicevamo all’inizio, attinge principalmente a due fonti: da un lato il quotidiano, il biografico e i ricordi di famiglia, dall’altro l’inconscio collettivo di matrice junghiana, ovvero una memoria comune a tutti gli uomini, i cui archetipi si riconoscono nei miti, nelle fiabe e nei sogni.

Centrale, infatti, nella ricerca dell’artista umbra, è il tema della memoria, che si esplica nella predilezione per le stratificazioni proprie dell’affresco, perché, come diceva Bergson, la materia è memoria, ma anche nella modalità espositiva delle ultime composizioni, quasi miniature inserite in piccole teche di plexiglass, che si fanno contenitori del presente e del passato.

E proprio in queste opere recenti, piccole formelle che si susseguono come le metope del Partenone, si riconosce la volontà narrativa dell’artista: non un canovaccio che segue lo schema di Propp, con un inizio, uno svolgimento ed una fine, ma un racconto postmoderno che, come i celebri romanzi Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino oppure Il nome della rosa di Umberto Eco, rimane aperto ad infinite possibilità.

Più che un vero e proprio racconto, una mappa che si coagula sulla superficie di ogni dipinto, veicolando lo spettatore di opera in opera attraverso quelle forme e quei simboli che, in ultima analisi, si fanno sigilli apotropaici, posti a protezione della pittura.

Una pittura estremamente raffinata e dal sapore vintage che, pur trattando tematiche attuali - il vissuto, la memoria, il racconto - si avvale della tecnica che “l’più dolce e l’più vago lavorare ci sia”, ovvero l’affresco, che anche il Cennini prediligeva su tutte le altre. Una tecnica che prevede stesure successive e lunghi momenti di attesa nei quali l’artista ci racconta un po’ di se stessa, imbastendo brandelli di vita vissuta tra i solchi del disegno e il ritmico alternarsi dei colori.